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Lettura Sociologica - Live 8




Live 8 - Lettura Sociologica


Recentemente, come tutti sapranno, si è svolta la manifestazione denominata “Live Eight”. Si è trattato dell’esecuzione contemporanea di concerti musicali nelle più importanti città del pianeta a scopo umanitario, cui hanno partecipato i complessi più universalmente famosi, dagli U2 ai Pink Floyd, i quali si sono riuniti dopo molti anni appositamente per l’evento. Il tutto patrocinato dal cantante Bob Geldof. L’estate 2005 è stata scelta, simbolicamente, in quanto sono passati vent’anni dalla prima edizione del concerto, svoltosi al tempo unicamente in Inghilterra, e chiamato Live Aid for Africa(1). Inoltre, contemporaneamente, ha avuto luogo l’incontro dei capi degli otto paesi più industrializzati (il G8 e di qui il gioco di parole Aid=Eight) e soprattutto questo è voluto risultare un messaggio diretto a costoro in particolare riguardo al discorso del debito estero da parte dei paesi poveri.

L'evento è stato un grande successo poiché ha coinvolto milioni di persone nelle piazze principali e miliardi nelle case, inoltre ha reso più consapevole la popolazione dei gravi problemi da cui è affetta l’Africa. Emblematica e struggente è stata la pubblicità in cui noti testimonial schioccavano le dita ogni tre secondi, sottolineando il fatto che in quel lasso di tempo un bambino africano muore, per fame o mancanza di cure.

I complessi musicali, ma più in generale gli esponenti del mondo dello spettacolo, non sono nuovi a certi tipi di iniziativa benefica. E’ evidente che appaiono al pubblico più simpatici, e non degli spocchiosi miliardari da luogo comune; entra in ballo lo sfruttamento dell’immagine che da tali situazioni trae notevoli benefici. Si tratta di una situazione paradossale: i complessi finanziati dalle multinazionali discografiche rappresentano un prodotto di punta dell’odierno capitalismo imperialista “globalizzatore”, e sfruttando questo meccanismo portano un messaggio mondiale di denuncia nei confronti di questo “iniquo” stato delle cose. A questa affermazione si può obiettare con le teorie “new global”, le quali non rifiutano a priori ogni forma di globalizzazione ma cercano di intenderla come un potenziale vantaggio per tutti i popoli, se gestita oculatamente. L’argomentazione è indubbiamente interessante ma resta il fatto che i suddetti artisti sono tra chi più ha beneficiato del liberismo economico per come si presenta al momento. Ad ogni modo il punto non è dimostrare la buona o la cattiva fede ma, certamente, porre in dubbio la questione non si mostra affatto un’ipotesi priva di fondamento.

Dal canto del pubblico, tralasciando il desiderio di partecipare a rituali collettivi di socializzazione (forse il motivo principale per cui partecipa a tali manifestazioni), sul momento è sconvolto dalla realtà dei fatti e si indigna per quanto dolore avviene nel mondo. Immediatamente dopo però sopraggiungono i problemi personali e, sebbene l’opinione di un individuo possa rimanere su posizioni “no global”, di fatto la reale incidenza di questo atteggiamento è pressoché ininfluente.
La musica non è motore del desiderio di cambiamento, ma espressione. E’ essa infatti a risentire dei mutamenti sociali e pensare l’opposto risulterebbe piuttosto ingenuo. Esempi eclatanti sono il ’68 e il ’77: queste due annate hanno senza dubbio rivoluzionato la musica, ma questo è successo a causa dei tumulti che sconvolgevano le più o meno giovani generazioni di quei periodi.

Per analogia attualmente complessi che per immagine(2) si rendono “impegnati nel sociale”, “generosi tramite la beneficenza”, “protestatari contro il sistema”, non fanno altro che riflettere l’atteggiamento del loro pubblico, che riterrebbe cinico non rimanere sconvolti di fronte a un bambino affamato, giusto il fatto che venga sottolineato un determinato problema sociale, apprezzabile l’organizzazione di eventi a scopo benefico alla quale contribuirebbero volentieri se convinti, condivisibile la protesta nei confronti dell’establishment borghese, benpensante e dispotico.


[G. Threepwood]



(1) In risposta i più famosi musicisti americani composero la celeberrima “We are the world”, denominandosi USA for Africa, e devolvendo gli utili in beneficenza. In precedenza al Live Aid gli artisti del Regno Unito avevano inciso il pezzo “Do they know it’s Christmas time?”.

(2) Sia ben chiaro che “per immagine” è complemento di mezzo e non di scopo. Come già sottolineato precedentemente, in questa occasione non interessa tanto testare il reale coinvolgimento dei musicisti, ma constatare che se essi appaiono in un determinato atteggiamento, fa da sé che ciò avviene tramite lo sfruttamento dell’immagine, a prescindere dalle aspettative dei singoli soggetti.