La strategia dei Chat Pile è chiara: non escludere nulla.
Hanno attirato l’attenzione degli amanti del noise rock con due EP superlativi (Remove Your Skin Please e This Dungeon Earth), impreziositi da artwork impossibili da ignorare. Hanno condiviso split con band affini come Portrayal of Guilt e Nerver, pubblicato cover di artisti apparentemente intoccabili come Nirvana, Sepultura e Rage Against the Machine, e conquistato un pubblico più ampio con due album di altissima qualità, pieni di brani da imparare a memoria.
Hanno persino composto una colonna sonora (Tenkiller) e registrato un live al Roadburn. Ogni sfida la affrontano con serietà e competenza, ogni concerto è vissuto come fosse l’ultimo. Non sono dei pivelli, e proprio per questo sanno cosa significa essere finalmente saliti su un treno che può garantire una certa tranquillità di carriera, senza mai dimenticare che potrebbe deragliare da un momento all’altro.
Potrei dire le stesse cose di Hayden Pedigo, ma in ambito folk. Ha pubblicato cassette da cinquanta copie, condiviso palchi e dischi con altri artisti della scena, ed è costantemente in tour. Possiede un immaginario visivo riconoscibilissimo e uno stile personale, radicato nel primitivismo americano. Ammetto di averlo incrociato in varie liste nel corso degli anni, ma di averlo ascoltato davvero solo dopo l’annuncio di questa collaborazione. Ovviamente me ne sono innamorato subito.
Questo incontro tra due titani dell’underground americano poteva generare un dischetto inutile o un capolavoro da storia della musica. Nella loro intelligenza, invece, hanno scelto una terza via: dare al pubblico qualcosa di diverso.
Qualcosa che suona di confine, ma non da cartolina, e neppure da film horror come Le colline hanno gli occhi. Una via di mezzo. Come quando conosci qualcuno di molto strano, ma che ha un punto di vista sulla vita particolare, inatteso. Non rassicurante, ma neanche spaventoso.
Da questa fusione nasce un ibrido musicale senza riferimenti precisi: la melodia è abbozzata, il folk è stralunato, la potenza resta in qualche modo trattenuta, e le “canzoni”, in senso stretto, quasi non esistono.
Sembra uno di quei dischi sbagliati e folli che uscivano negli anni ’90, e che, puntualmente, finivo per adorare.
In the Earth Again non è per tutti. Ed è proprio questo che me lo rende ancora più simpatico.