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Tanti, tanti anni fa ho attraversato una fase Coroner piuttosto acuta, nata dalla scoperta di dischi incredibili come Grin e Mental Vortex: veri antesignani del metal tecnico e dissonante, nonni di quello che oggi chiamiamo djent.
I Coroner si formarono in Svizzera nei primi anni ’80, gravitavano nell’orbita dei Celtic Frost e si sciolsero nei primi anni ’90 dopo una manciata di lavori fondamentali, rimasti però un culto per pochi. Il loro stile, decisamente d’avanguardia, combinava riff thrash con dissonanze e tempi storti, senza rinunciare all’impatto deflagrante. Un po’ come i loro contemporanei Voivod, ma in modo più compatto e meno “space”.
L’influenza di quei pochi dischi si avverte ancora oggi, nei Meshuggah come in moltissime band metalcore moderne. Nel 2010 si riunirono con un nuovo batterista (Diego Rapacchietti) per riportare la loro legacy sui palchi di tutto il mondo. Ebbi la fortuna di incrociarli al Roadburn, coronando un sogno adolescenziale.
A 32 anni da Grin, tornano a sorpresa con Dissonance Theory e dimostrano non solo di essere in splendida forma, ma di voler riprendere lo scettro di re del metal tecnico. Dopo una manciata di riff, è impossibile non inchinarsi: i Coroner tornano a essere i capi indiscussi del genere.
Dissonance Theory suona al 100% come un disco dei Coroner, ma riesce a incorporare una quantità notevole di influenze moderne senza snaturare il loro sound e senza mai dare l’impressione di vecchi che inseguono i giovani. È la prova di quanto questi musicisti restino curiosi e rigorosi, non solo verso i propri strumenti, ma anche verso ciò che è possibile ottenere con un uso intelligente e creativo degli stessi.
Non è un lavoro “innovativo”: i Coroner la strada l’hanno tracciata tanti, tanti anni fa. Ma è un disco che manda a lezione tutti. E quella lezione la seguiamo ancora molto, ma molto volentieri.
[Dale P.]
Canzoni significative: Consequence, Trinity.
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