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Concerto Orange Goblin - Zippo - Karma To Burn - Church Of Misery - Truckfighters del 06/04/2012



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Desert Fest London 2012

Londra

06/04/2012

Desert Fest, London, 6-7-8 aprile 2012

"So...you come from Japan...but the festival is sold out." Una giapponese con la maglia dei Church of misery si guarda intorno spaurita ma sorridente, il suo inglese non l'aiuta a capire bene cosa stia succedendo ma pare fiduciosa. Alla fine, ovviamente, qualcuno di buon cuore nel botteghino inventera' un biglietto invisibile per i tre giorni di questa Desert Fest e quindi ci sara' anche lei. Questa scena descrive bene l'attesa e le aspettative per questa prima edizione del nuovo evento londinese che si propone da subito come appuntamento imperdibile per tutti gli stoners d'Europa.

Il festival si tiene a Camden Town, cioe' nel quartiere londinese tempio della stranezza e dell'originalita' cercata a tutti i costi, a tratti forzata e un po' "turistica", ma indiscutibilmente affascinante, e si dipana lungo tre diverse venues: lo storico Underworld, il Black Heart ed il Purple Turtle. I primi due locali si trovano a pochi metri di distanza mentre l'ultimo e' un po' piu' defilato e questo rende il festival, in effetti, un po' dispersivo. L'acustica e' sempre ottima in tutte e tre le venues ma la capienza e' limitata (il piu' grande dei locali e' l'Underworld, che puo' ospitare al massimo 500 persone); questo si rivelera', pero', paradossalmente una virtu', in nessun'altra occasione e', infatti, possibile avere un cosi' stretto contatto con i musicisti, ti puo' capitare di vedere il concerto dei Truckfighters affianco al chitarrista degli Orange Goblin o prendere una birra al bancone accanto ai Rotor e i Sungrazer, con Ben Ward che gironzola indisturbato per il locale come un normale spettatore. La DesertFest vanta, inoltre, anche un'edizione berlinese cugina con line-up simile (con in aggiunta nomi come Colour Haze, Black Tusk e Red Fang) che comincera' due settimane dopo la fine dell'edizione inglese, per dare tempo ai metallari piu' ricchi di prendere un aereo e beccarsele entrambe. Costo del biglietto dell'edizione inglese: 75 pounds; per piu' di 50 gruppi e per l'opportunita' di conoscere cosi' da vicino alcune delle realta' piu' interessanti dello stoner odierno e' un prezzo piu' che ragionevole. A tratti mi e' sembrato,infatti, un festival piu' per musicisti e addetti ai lavori che non per il pubblico: in pratica la meta' delle persone presenti ad ogni concerto era formata da altri gruppi o gente della stampa; non devi neanche cercare il musicista che t'interessa di piu', in locali cosi' piccoli e stipati di gente lo trovi per inerzia, andare al bancone e trovarci i Karma to Burn e' la cosa piu' normale del mondo. Purtroppo, pero', la capienza limitata delle venues ha costretto anche parecchie persone a rimanere fuori dai concerti dei gruppi piu' blasonati e quindi avere una specie di proprio programma e presentarsi ai concerti con qualche minuto di anticipo era una necessita'.

Il primo giorno decido di cominciare dai Ponamero Sundown al Purple Turtle, onesta formazione svedese che propone un classico hard rock, diretto e muscolare al punto giusto ma niente di speciale. Mi sposto al Black Heart e assisto ad un concerto acustico dei Crystal Head, formazione inglese con chiare influenze di A Perfect Circle e Queens of the stone age, si esibiranno nuovamente due giorni dopo in un concerto elettrico ma, paradossalmente, sono meglio in veste acustica: psichedelia orecchiabile con voce sofferta e trame interessanti, come se i Verdena si mettessero improvvisamente a fare musica non autoindulgente.

Dopo di loro arrivano i Gonga ed il festival assume finalmente la sua dimensione: attaccano doom e virano stoner con deliri rumoristici e stop 'n go fulminanti, strumentali perche' il cantante ha abbandonato da poco, con la perdita delle vocals guadagnano in impatto e precisione, perche' con certa musica non c'e' bisogno di parole, fanno sudare tutti i presenti in accellerazioni catramose e feedback e mettono per la prima volta a dura prova l'amplificazione del Black Heart. Subito dopo, sul palco dell'Underworld, i Sons of Alpha Centauri deludono un po' le aspettative, forti della loro collaborazione coi Karma to Burn ce li si aspettava diretti e ritmati come su disco, con le loro fughe strumentali eteree ma muscolari, ma, al contrario, probabilmente per emozione, appaiono bloccati e imprecisi.

Dopo di loro e' il turno dei Rotor e di uno dei primi concerti davvero sensazionali del festival: suoni rotondi e a fuoco, trame melodiche ma mai banali, una "Costa Verde" di quasi un quarto d'ora stordisce i presenti traghettandoli in lande d'arpeggi pulsanti e vitali; incidono sotto Elektrohasch (la label del chitarrista dei Colour haze) e si sente, sono un po' i loro cugini incazzati e con meno esperienza, quindi senza la stessa genialita' psichedelica. Con la chiusura finale di "Drehmoment", pero', i berlinesi insegnano ai presenti perche' lo stoner ha nel concetto di reiterazione una delle essenze principali del genere: una ripetizione sfibrante di quasi dieci minuti dello stesso riff che ha come risultato tutto l'opposto della noia, anzi, un annegamento in una sequenza di note che sembrano cambiare al secondo ascolto e poi ritornare uguali a se' stesse, un riff che puo' essere mille altri, a seconda di come lo si ascolta. Catartici.

Ora i Karma to Burn...ed una domanda sorge spontanea: come si fa a recensire un concerto che si e' concluso con tizie nude sul palco che leccano le chitarre? E non e' un modo di dire. Alle prime note di "Twenty Eight" l'Underworld e' esploso e la gente e' letteralmente impazzita, non si puo' descrivere un concerto cosi', ma si puo' sottolineare il fatto che, al di la' della grandezza della band, il vero spettacolo e' stato fatto dal pubblico. Clamorosi.

Un primo giorno sensazionale si conclude con gli Orchid al Purple Turtle, ovvero quattro svedesi che hanno deciso scientemente di ignorare il fatto che sia successo qualcosa nella musica durante gli ultimi trent'anni: si limitano a copiare i Black Sabbath e ovviamente lo fanno malissimo.

Il secondo giorno inizio con gli italiani Zippo sul palco dell'Underworld, da dove non mi muovero' per quasi tutto il giorno, penalizzati da una scaletta che li vede immeritatamente suonare ad un orario improponibile, i pescaresi si confermano comunque uno dei gruppi piu' interessanti della scena stoner italiana ed europea: ottimo cantato, arrangiamenti originali e inclinati al prog, suoni massicci ed un nuovo disco, "Maktub", tra i migliori della scena italiana nell'ultimo periodo. Sarebbe ora che anche in patria si cominci ad apprezzare una delle nostre realta' che gia' da tempo riceve inspiegabilmente piu' elogi ed attenzioni all'estero che da noi.

Dopo di loro suonano gli Shrine 69, ovvero quattro incapaci capitati su un palco per sbaglio, con un cantante autistico impegnato piu' a far vedere che c'ha il mal di vivere che a cantare. Gli Steak non risollevano la situazione e poi ho capito il perche': sono il gruppo di uno degli organizzatori del festival, in pratica il loro concerto era un'auto-marchetta. I Roadsaw sono, invece, quattro fieri rednecks texani, ignoranti al punto giusto, che sbattono in faccia ai presenti il loro hard rock ispirato e senza fronzoli e risollevano un po' il morale. Ma ora e' il turno dei Sungrazer: psichedelia compatta e diretta, suoni enormi e a fuoco, deliqui catramosi di feedback, loops, sovraincisioni e bisbigli che si tuzzano e si sorpassano in ripartenze ed arresti imprevedibili. Una "Common Believer" da antologia in chiusura e miglior concerto della giornata, senza dubbio.

Dopo cotanta magnificenza, i Valient Thorr, ovvero un gruppo cosi' brutto che non mi va di parlarne, ancora cerco di capire come abbiano fatto a fare da spalla ai Dillinger Escape Plan.

Al contrario i Truckfighters riabilitano la situazione, anche se spesso appaiono piu' impegnati a fare casino sul palco che non a suonare davvero, risultano comunque godibili e sprigionano un'energia dal vivo come poche altre band, con un senso del groove invidiabile ed una presenza scenica ottima.

Dopo di loro arrivera' il primo dei due mostri sacri della serata, ovvero i Church of Misery, doom metal da Tokyo; con fierezza ed esperienza i giapponesi attaccano le loro cadenze lente e dondolanti, in puro stile doom, ma senza la dimensione sinistra tipica del genere, come se fosse uno stoner esasperatamente rallentato, senza alcun innesto sludge ma con un frontman pazzo che si rivela all'altezza della sua fama. Assolutamente godibili e da non perdere dal vivo. Dopo di loro e' il turno degli Orange Goblin alle prese con uno dei concerti piu' facili della loro carriera: suonano nella loro citta' ad un festival stoner in un locale che e' praticamente casa loro, in pochi hanno davvero badato alla musica, sembrava di stare ad una festa tra amici, fiumi di alcol e dichiarazioni d'amore tra band e fans che manco ad Amici. Ovviamente e' stato un concerto divertentissimo ed il miglior gruppo "da macchina" della storia nonche' uno dei gruppi che piu' di tutti incarna lo "spirito" dello stoner non poteva certo deludere.

Menzione d'onore agli Slabdragger in chiusura, al Purple Turtle: puro sludge-metal, lentissimo e cattivissimo con, a sorpresa, una cover di "Muffin man" di Frank Zappa in chiusura, in versione sludge, che mi sta facendo ancora ridere.

Il terzo giorno mi sveglio indicibilmente tardi e comincio i concerti da meta' giornata con uno dei gruppi piu' interessanti del festival, gli Zoroaster: devastanti, imprevedibili, con un'amplificazione insostenibile, volumi enormi, ogni nota del basso era un calcio nella pancia con vibrazioni nelle budella. Divagazioni sperimentali in canzoni puramente e fieramente sludge, rallentamenti ed accellerazioni sconvolgenti e soprattutto uno dei batteristi piu' spettacolari e fieramente pestoni della scena. Una pura goduria per occhi e orecchie, ma solo per gli stomaci duri del genere, si capisce bene perche' Brent HInds li ami e abbia collaborato con loro.

Dopo di loro e' il turno del metal contorto dei Black Cobra, solo chitarra e batteria per un duo dai propositi bellicosi: partono velocissimi, con atteggiamento sfrontato e diretto, suoni volutamente impastati che si intersecano e si contorcono su loro stessi, si perdono per poi ritrovarsi in esplosioni stoner velocissime e imprendibili, per poi nuovamente avvilupparsi intorno ad un singolo riff e a tutte le sue possibili estensioni; quasi concettuali nel loro essere slabbrati e fangosi prima per poi schiaffeggiare i presenti con riff fulminanti e precisi. Assolutamente da non perdere dal vivo.

Si cambia completamente stile e si approda sul lato piu' psichedelico, jammistico e frikkettone dello stoner con i Samsara Blues Experiment, altri teutonici che dimostrano come i crucchi ci sappiano decisamente fare con certe sonorita'. Quasi un'ora di concerto per soli cinque pezzi , questo fa capire l'atteggiamento della band: semplici e pure jam in stile settantiano, divagazioni e assoli interminabili, musica celebrale ma che non dimentica di mostrare tensione e muscoli quando e' il momento. Alle volte rischiano di cadere nell'autoindulgenza e di annoiare quando si fanno prendere troppo la mano, ma si dimostrano comunque un gruppo interessante.

Chiudono il festival i Corrosion of Conformity e la loro storia in un Underworld intasato all'inverosimile, vent'anni di carriera in un'ora e mezza, tra hardcore, fughe punk, siparietti comici con il batterista grasso piu' bello della storia (dopo Dale Crover) e sferzate sludge, cadenzate e cattive. Non deludono le aspettative, anzi, condensano tutte le sfumature del loro stile in un concerto perfetto, sfaccettato com'e' il loro suono, ibrido tra punk, hardcore e metal e sfiniscono tutti i presenti, ormai boccheggianti dopo una tre giorni di fuoco.

Insomma, un festival meritevole ed interessante, con alcune lacune organizzative, chiaramente dovute al fatto che si e' alla prima edizione, e che paga anche una certa inesperienza nella compilazione della line-up, troppo ricca di gruppi chiaramente riempitivi; cinquanta gruppi in soli tre giorni sono decisamente troppi, sarebbe stato meglio concentrarsi su un programma sfoltito, rinunciare alle band inutili per risultare meno dispersivi, concedendo anche al pubblico di seguire con meno foga il proprio programma che, ovviamente, tagliava fuori la maggior parte delle band (mi son perso, tra gli altri, gente come Black Pyramid, Ancestors, Gentlemans Pistols...) . Rimane, comunque, il ricordo di un festival davvero molto bello, ricco di incontri interessanti e momenti stupefacenti. Una DesertFest, quindi, che sicuramente riuscira' a crescere nelle prossime edizioni e, alla luce anche delle splendide vette di questa prima edizione, sarebbe davvero un peccato perderla in futuro, non foss'altro per la incredibile soddisfazione dello stringere la mano o bersi una birra insieme al musicista che ammiri.

[Giovanni Solazzo]

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