Ci sono dischi che la stampa non nominerà mai, artisti che non avranno mai le copertine dei giornali specializzati, distratti da cartellette stampa luminescenti, finti hype e l'irresistibile effetto-eco della stampa estera.
Parlare dei Sabot vuol dire avere la possibilità di parlare per ore e ore di una realtà underground vera, come quelle dei gruppi hardcore anni 80, fatte di chilometri macinati in furgone, completo controllo di ogni aspetto (show, label, discografia) e un attitudine musicale mai scontata e prevedibile. Stiamo parlando di una band che ha suonato praticamente in ogni angolo della terra (Cina, Pakistan, Russia, Giappone, Sud America compresi). Invece, fatevi un giro in rete, sembrano un segreto ben custodito..
I Sabot sono in due: Hilary alla batteria e Christopher al basso. Suonano uno stralunato punk-progressive giocato su tempi dispari, riff sbilenchi, basso graffiante e batteria giocherellona come un ipotetico mix di Dysrhythmia, Primus, Minutemen ma che risulta solo "alla Sabot". Non siamo dalle parti dei power-duo alla Lightning Bolt, Hella e altre band nervose e irruenti del genere, ma come un band jazz-core virata "riff" tendente a mandarti fuori sincrono al primo momento di "orecchiabilità".
Ovviamente "Further Conversation" rende almeno la metà della gioia di vedere la band dal vivo, ma allo stesso tempo è il più prezioso souvenir di una serata passata ad ammirarli a bocca aperta.
[Dale P.]
Canzoni significative: Hell To The Chief, Quintessential, Start To Finish.
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