Si puo' muovere loro qualsiasi accusa: da un'immobilita' stilistica cronica e calcificata in trentacinque anni di carriera al continuo rimestare su tematiche ai limiti con una riottosa adolescenza, dite tutto quel che volete contro i Motorhead ma saranno solo critiche fini a se stesse. Ian "Lemmy" Kilmister ha sessantacinque anni e continua ad incartare e spedire sulla luna la gran parte dei moccioselli a zonzo per il rockettino tanto sponsorizzato dalle lobby giornalistiche Che Contano.
Da sempre sordi alle sirene delle mode grazie ad un'intransigenza verace che si e' tramutata in stile di vita, oltre che in dogma magistrale per schiere di musicisti, i Motorhead mettono sul piatto il disco Numero Venti uguale ad ogni cosa da loro partorita nel corso di questi tre decenni. Il riffing di Phil Campbell e' la consueta ed irriverente miscela di punk, rock'n'roll e heavy metal che riveste le ritmiche snelle e incalzanti di Mikkey Dee, neanche a dirlo.
Sentire l'energia che trasuda dalle casse al passaggio di "I Know How To Die", "Get Back In Line", "Devils In My Hand" e' una goduria, cosi' come l'assalto punk'n'roll di "I Know What You Need" e il piglio metallico di "Outlaw" e "Born To Lose". "Rock'n'roll music is the true religion" dice Lemmy e come fare a non credergli anche quando la scena e' invasa dall'aspra foschia di "Brotherhood Of Man"? Impossibile immaginarli diversamente, non sarebbero affatto i Motorhead, paladini di una musica, l'Heavy Metal, da tempo incapace di rinnovarsi e costretta a riugiarsi in pochi storici nomi per avere certezze.
Sara' musica per ragazzini mai cresciuti, rock senza fronzoli e un po' ignorante, puo' darsi, ma nulla ci esime dal tributare ode e gloria a chi e' sopravvissuto incolume alle mode e all'erosione del tempo, alla faccia di chi tra un paio d'anni, se non di meno, dovra' trovarsi qualcos'altro con cui riempirsi la bocca e dare un senso alla propria vita, la' dove tirera' il vento.
[Marco Giarratana]
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