Voglio molto bene ai Pelican. Mi riportano a quel periodo dei vent’anni in cui il post-metal regalò una valanga di capolavori. Grazie a quel movimento iniziai a scavare sempre più a fondo nell’underground, scoprendo musiche inusuali e inaspettate, quasi tutte poi recensite su Taxi Driver. Ancora oggi la scena di Isis, Neurosis, Pelican e dell’intero roster Hydra Head resta ai vertici delle mie preferenze sonore.
Bisogna ammettere, però, che i ragazzi di Chicago hanno smesso piuttosto presto di fare musica davvero rilevante: dopo i primi EP e i due album fondamentali — Australasia e The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw — non sono più riusciti a entusiasmare come un tempo. Qualche scivolone pesante, qualche timido guizzo a ricordare la bellezza degli esordi, ma è stato chiaro a tutti che il meglio era alle spalle.
Flickering Resonance riunisce la formazione originale, ma purtroppo il risultato non cambia. Qual è il problema dei Pelican? Innanzitutto, non si sono mai allontanati dal solito schema: riffone, altro riffone, un altro ancora — e via così. Schema che, a dirla tutta, è difficilissimo tenere interessante a lungo: o ti chiami Tony Iommi oppure, prima o poi, le idee finiscono. In più, non hanno mai osato con distorsioni estreme, timbri particolari o arrangiamenti arditi. E siccome non ci sono altri ingredienti a compensare, i nostri sono rimasti un nome che suscita simpatia ma sopravvive grazie a una piccola base di fan affezionati.
Ed è un vero peccato, perché basterebbe un po’ di coraggio in fase di scrittura per tornare a brillare. Alle mie orecchie, Flickering Resonance suona come una buona jam stoner, ma niente di più.
[Dale P.]
Canzoni significative: Indelible, Gulch.
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